Rispetto al terremoto che colpì l’Aquila, la situazione emiliana è differente in molti aspetti. Innanzi tutto a
livello geografico, in quanto il territorio colpito dal sisma è vasto, non si concentra attorno ad una sola città,
ma attraverso isolate case di campagna, piccole frazioni e paesi, l’estensione dell’area interessata ha un
diametro di una cinquantina di chilometri.
A livello temporale le scosse di forte intensità sono state almeno tre, distribuite in un lasso di venti giorni.
Scosse di più bassa intensità continuano ad oggi.
Questi fattori hanno contribuito ad ostacolare l’operato della Protezione Civile, che non è riuscita a
controllare e regolamentare la totalità delle realtà distribuite sul territorio. Un mese dopo dalle scosse le
istituzioni stanno ancora cercando di convogliare all’interno delle strutture della Protezione Civile le molte
situazioni esterne.
I campi della Protezione Civile oggi permettono l’alloggio solo ai cittadini residenti nel rispettivo comune, e
con la casa inagibile. Si effettuano controlli di documenti ogni volta che si entra e si esce, in alcuni campi
sono stati utilizzati braccialetti di identificazione, non sono ammesse visite di alcun tipo; esistono orari di
chiusura e di apertura; non sono ammessi assembramenti; non si può bere alcolici. Non sono ammessi
animali, i cani spediti ai canili, ormai sovraffollati, oppure spesso abbandonati nei giardini delle case lasciate
vuote. I campi sono recintati e piantonati da forze dell’ordine.
Ingente è la presenza di forze dell’ordine: municipale, carabinieri, polizia, finanza, militari, pompieri e
guardie giurate, che pattugliano costantemente le strade dei paesi mezzi deserti, le zone rosse, le fabbriche
ancora piene di merci.
Tra le soluzioni istituzionali alternative all’uso dei campi della Protezione Civile c’è l’alloggio in alberghi
nella provincia di Modena, in Romagna sulla costa ed anche in altre regioni. Ovviamente questo tipo di
soluzione è impraticabile per chi ancora lavora in zona a cui son proposte soluzioni lontane.
Per i molti migranti sono scattati aiuti al ritorno volontario: le ambasciate di Marocco e Tunisia hanno
finanziato completamente il volo di rientro nei paesi di origine; ma anche quando non stati stanziati
finanziamenti, la soluzione di rispedire a casa almeno donne e bambini (vista anche la contingenza della fine
dell’anno scolastico) si è rivelata ai nostri occhi la scelta primaria di molti dei migranti che abbiamo
incontrato.
Tanta gente ha poi trovato soluzioni personali presso amici, parenti, o seconde case.
Molta gente è accampata nei giardini adiacenti le case, in spazi collegabili a impianti sportivi, polisportive o
circoli di vario tipo, e infine in gran parte dei parchi.
Queste situazioni sono accomunate dal fatto di non ricevere aiuto alcuno da parte delle istituzioni. I soli aiuti
pervenuti sono da parte di volontari di vario tipo. Queste situazioni hanno da subito ricevuto l’attenzione
degli sbirri perché non rientrano in situazioni previste e direttamente gestite dalle autorità. Inizialmente
disincentivando a restare facendo leva sull’esclusione dal circuito degli aiuti, o col portare via strutture di
vario tipo eventualmente utili al vivere collettivo.
Nei parchi in particolare non si sono mai interrotti i pattugliamenti sia notturni che diurni. Quando poi sono
stati decretate le ordinanze di sgombero, la polizia ha iniziato ha fare leva sulle paure della gente (igiene,
epidemie, pericolo fughe di gas, tossici nei parchi). Gli sgomberi non sono ancora operativi, ma comincia col
ripristinare l’applicazione del rispetto delle norme comuni vigenti riguardo il verde cittadino ( spostare le
macchine dall’interno dei parchi, cucinare in zone ignifughe). Si cominciano a distinguere sfollati di serie A e
di serie B, i primi con maggior legittimità, con la casa inagibile, i secondi senza diritto alcuno, perché spinti
fuori casa soprattutto dalla paura.
Nelle situazioni più piccole, magari in campagna, il senso di comunità è emerso in modo più spontaneo e
semplice. In questi contesti la solidarietà reciproca e la volontà di affrontare insieme la “catastrofe” hanno
fatto sorgere immediatamente dinamiche di auto-organizzazione impermeabili alle minacce delle autorità e
che stanno quindi riuscendo a conservarsi nel tempo.
Nei parchi cittadini le situazioni cambiano a seconda del tipo di quartiere e di vita che c’era.
Negli accampamenti spontanei sorti nei parchi, spesso la gente non aveva i materiali neppure per mangiare e
lavarsi, per potere quindi continuare a vivere in tale condizione nel tempo senza doversi piegare agli
incessanti inviti a trasferirsi nei campi autorizzati.
In queste situazioni abbiamo notato che dove preesistevano relazioni tra le persone che abitavano lo stesso
quartiere, un senso di solidarietà, aiuto reciproco e comunità ha potuto emergere. Dove invece regnava il tipo
di vita standard in contesti urbani di isolamento, la condizione di ignorare il proprio vicino si è perpetuata
anche attraverso la catastrofe.
Episodi che fanno emergere questo atteggiamento sono evidenti in primo luogo quando si portano degli aiuti.
Se da una parte c’è chi prende solo ciò di cui ha bisogno, dall’altra parte si cerca di accumulare e nascondere
nella propria tenda quanta più roba si riesce.
Laddove la gente è riuscita a relazionarsi con ottica collettiva è riuscita a risolvere la questione del mangiare,
oppure anche ad ottenere docce e bagni.
Dove non sono cresciuti percorsi collettivi la condizione di sfollato è aggravata dall’isolamento, che implica
un rapporto di forza nullo per ottenere qualsiasi cosa, fino alla impossibilità di mantenere la propria auto
sotto l’ombra dell’albero vicino alla tenda.
Nel frattempo stiamo provando a creare un punto informativo dove chi vorrà potrà venire a scambiare
opinioni, trovare materiale sul sisma ma non solo, compresa una mappa dei campi che possa agevolare la
comunicazione tra gli sfollati stessi, nonché l’eventuale intervento di compagni.
Scopriamo da internet la presenza di CasaPound nelle vesti dell’associazione La Salamandra, gruppo di
protezione civile, attivo attualmente nel comune di Bondeno, nel ferrarese, presso le località Pilastri e
Scortichino.
Ci è capitato invece di incontrare sul territorio le Brigate di Solidarietà Attiva, autodefinitesi comunisti,
anarchici, ultras, rifondazione etc… questi soggetti vagavano per i campi promettendo aiuti di vario genere
mentre svolgono l’attività di censimento della popolazione dei campi spontanei, per conto del comune di
Carpi. Quando questo tipo di insediamento è sotto rischio sgombero, questo tipo di attività per il Comune va
incontro unicamente alle esigenze delle forze dell’ordine.
In queste settimane passate tra i campi abbiamo incontrato persone che non hanno più fiducia né aspettativa
nello Stato e nei suoi apparati, con cui è stato possibile condividere momenti interessanti da cui potrebbero
scaturire delle prospettive di lotta concrete. Questo ci ha incentivati a fornire gli strumenti a chi non vuole
entrare negli schemi della gestione dell’emergenza imposti dall’alto, per potere continuare a farlo. Avere la
possibilità di cucinarsi un pasto caldo e condividerlo con il resto del campo, potere autogestirsi almeno le
esigenze primarie.
Fornire gli strumenti per auto-organizzarsi e rendersi autonomi dallo Stato si differenzia da un
assistenzialismo caritatevole.
Tuttavia, questo non vuol dire che autogestione e condivisione siano praticati, e i loro strumenti non
finiscano ignorati, senza che le persone riescano a farseli propri.
Infatti, se l’auto-organizzazione resta un passo fondamentale nel processo di liberazione di un individuo
dall’ottica imposta dallo Stato, e quindi ai nostri occhi era apparso un passo primario perché gli individui
colpiti dal sisma e incazzati iniziassero a conoscersi ed organizzarsi; ciò nonostante è un percorso che
implica tempo e una certa formazione, che si costruisce poi nella pratica e nell’esperienza. Forse, come
compagni, avremmo dovuto, e potremmo ancora, cercare di affiancare a questo percorso inevitabilmente
lungo, spunti di riflessione più concreti sulla maniera di intervento sull’esistente. Parlare di riappropriazione
individuale e collettiva di ciò di cui si ha bisogno: smettere di aspettare che arrivino aiuti dall’alto, o anche
dal basso, e andarsi a prendere ciò di cui si ha bisogno. Questo discorso che va ben oltre il tempo della
catastrofe, può trovare terreno fertile in un contesto in cui la rabbia è forte, la necessità impellente, e lo Stato
presente solo con il solito squallore autoritario.
Come continuare a muoversi attraverso un percorso districato di questo tipo resta per noi una questione
aperta.
Alcuni sfollati e solidali
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